Il mondo del web è strano ed è cosa assai nota. La parabola di Clubhouse lo dimostra molto bene. Boom, flessione e ricerca della stabilità. Il paragone calcistico calza a pennello: un giocatore acquistato dalla Juventus, che finisce ovunque in prima pagina all’esordio, per poi sparire piano piano dai radar trovando una sua dimensione in squadra storica ma non di prima fascia.
Moda dell’inizio 2021 e barca in balia della tempesta nell’ultimo trimestre dell’anno, Clubhouse tenta il consolidamento. L’impronta esclusiva del sistema ad invito lo ha reso irresistibile. Smorzato l’entusiasmo, il social accusa il colpo della concorrenza di chi lo ha copiato – vedi Twitter e Telegram – e perde il suo appeal in ottica di contenuti esclusivi e marketing.
Clubhouse e la sua storia
L’esordio ha puntato sulla cerchia esclusiva, ad aprile 2020 il social network funzionava su invito e solo in ambiente iOS. Il principio era semplice: nessuna chat ma solo messaggi audio. Complice l’isolamento da pandemia, Clubhouse era quanto di più simile ad una chiacchierata tra amici. Numerose tematiche, in altrettante stanze dedicate, hanno dato vita ad una mini evoluzione della radio. Il gradimento si è tradotto in impennata delle adesioni, facendo registrare in soli due mesi un + 2 milioni di persone attive a settimana. I grandi – Facebook, Twitter, Spotify, Telegram e LinkedIn – hanno colto il suggerimento e Clubhouse ha perso i suoi numeri. Vani sono stati l’apertura ad Android, l’eliminazione degli inviti e l’introduzione del sistema di monetizzazione. Troppo tardi?
Cosa non ha funzionato
Dopo questa brevissima sintesi, degna dei super Bignami che hanno contribuito a superare alcuni scogli letterari a scuola, bisogna analizzare cosa non ha funzionato nella strategia per rilanciare la piattaforma. Come l’esperienza ti insegna, osservare i punti deboli del social può far comprendere il fenomeno e sviluppare i soli punti di forza. Clubhouse parte da due limiti:
- scarso interesse da parte dei creatori di contenuti;
- attrazione inesistente in chiave di marketing e pubblicità.
Avere un’idea originale e valida può non essere abbastanza se non si crea la dovuta base economica. Il programma “Creator First” è stato un tentativo nullo poiché non ha ottenuto una sostanziale adesione da parte di quanti avrebbero dovuto creare nuovi contenuti e la scelta di ripiegare sugli strumenti di qualità si è comunque rivelata un vicolo cieco. Il caso Clubhouse è destinato a fare scuola nel capitolo social flop, il tutto si riassume in tre punti:
- assenza di interazione tra aziende e creatori dei contenuti;
- vincoli all’ingresso nelle stanze pubbliche da parte degli stessi content creator;
- zero recall da parte delle aziende quindi conversione nulla.
L’epilogo in un finale già scritto?
La ritirata generale era la conseguenza più prevedibile. Il progetto non ha avuto i presupposti per crescere ed ha ceduto il passo ai social concorrenti. Come previsto, la scarsa adesione alle donazioni volontarie ha avuto il suo peso. L’assenza di spazi pubblicitari nelle stanze ha allontanato il marketing aziendale. Nel mare social, c’è il modo di superare i big? Questo è il punto su cui riflettere.
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